GIUSTIFICARE LE AZIONI È UN MODO PER ACCECARE LA REALTA'
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Arianna ha da poco sostenuto l’esame dell’unica materia per la quale è stata rimandata a settembre. La scuola la chiamerà solo in caso di bocciatura, ma la ragazza è tranquilla perché l’interrogazione è andata bene.
Eppure la telefonata arriva e la coglie in contropiede. Pugno nello stomaco e fiume di lacrime.
A seguire una seconda chiamata le annuncia che si tratta di uno scherzo. Arianna è sconvolta. Il colpo inferto ha lasciato un solco profondo.
Cinque anni dopo. Secondo anno di università (fisioterapia) e primo di tirocinio in un centro specializzato.
Per un mese e mezzo, 40 ore a settimana, la ragazza viene interrogata sul funzionamento del corpo umano e le fanno anche trattare in autonomia alcuni pazienti essendo preparata e professionale. Il centro le propone, a studi terminati, di lavorare lì.
Ultimo giorno. Arianna è nervosa perché le consegneranno la scheda di valutazione e il voto farà media con gli altri esami.
All’arrivo il titolare, serio, le consegna la «pagella» dicendo: «Guardala che poi ne parliamo».
Arianna scorre le voci. È basita.
Ci sono molte insufficienze e qualche sufficienza con annotazioni che riportano fatti comici effettivamente successi, ma riletti in modo ribaltato.
Non può essere. È senz’altro uno scherzo.
Il titolare, sempre cupo, la invita nel suo studio per vedere insieme la scheda.
Arianna è certa si tratti di una presa in giro, ma lui inizia con feroce fantasia a elencarle carenze e assurdità.
La ramanzina va avanti a lungo. Colpo al cuore per Arianna: quindi è tutto vero?
La ragazza è sconcertata. I suoi occhi si velano di dolore. Solo a quel punto l’uomo conclude con voce burbera: «Sai adesso che facciamo?» e, presa la scheda, la straccia tirando fuori quella vera che ha voti eccellenti.
Arianna è così ferita che non si gode né il bel voto, né il resto della giornata nonostante gli sforzi dell’uomo di tirarla su con frasi tipo: «Dai, non essere così seria! L’ultimo che ha pianto al nostro scherzo è poi venuto a lavorare qui».
Forse qualcuno dovrebbe ricordare ai geni della lampada che ordiscono simili idiozie che quando uno ride e l’altro piange non si tratta di uno scherzo, ma di una cattiveria.
Quanto importante è chiamare le azioni con il loro nome e non con la giustificazione che le colora a nostro vantaggio, non solo accecando la visione oggettiva dei fatti, ma impedendoci altresì di essere da subito consapevoli delle conseguenze inevitabili che quel gesto genererà?
Un classico è comportarsi in modo scorretto nascondendosi dietro la parola «necessità», tanto nelle vesti dei carnefici quanto in quelle delle vittime, come nel film «C’è ancora domani» quando la Cortellesi, in una sorta di accettazione passiva della sua infelice condizione, giustifica le botte del marito con la frase «è nervoso, ha fatto due guerre» invece di ammettere l’ingiustificabile violenza.
E noi? Preferiamo essere ignari burattini in un teatro di marionette o uomini e donne desiderosi di vivere consapevolmente sul variopinto palcoscenico dell’esistenza?
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