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QUELL'ULTIMA SUONATA ARRIVÒ DALL'ANIMA
L’uomo suonava il pianoforte per ore ogni giorno. Apriva uno spartito e leggeva le note a prima vista come si legge un libro. Lui e il suo Bösendorfer erano inseparabili. Persino quando giovanissimo era partito per l’Eritrea, allora colonia italiana, il suo fedele strumento l’aveva accompagnato.
Quando acquistava una casa, il primo ad entrare era il pianoforte sul quale le dita dell’uomo sarebbero corse veloci mentre lui, immerso in virtuosi improvvisi come in lenti adagi, si sarebbe inebriato di un dolcissimo nettare.
Un mattino, mentre si deliziava con un notturno di Chopin, all’improvviso si bloccò. Scosse le dita energicamente e ricominciò. Nuovamente si interruppe. Fece una smorfia di insofferenza e sbatté ancora le mani come si scuote un cencio. L’uomo non capiva perché le sue dita si comportassero da scolarette disubbidienti ma, come poi venne a sapere, quelle erano le prime avvisaglie del Parkinson.
Piangendo sangue, decise di non suonare più.
I successivi nove anni trascorsero lenti e inesorabili paralizzandolo lentamente finché non sorse l’alba di un indimenticabile 6 novembre di trent’anni fa. L’uomo era sulla sedia a rotelle nel giardino della sua casa elbana. Il pianoforte alle sue spalle taceva immobile da tempo.
La giornata scorreva tranquilla finché, alle 14, in sua moglie non spuntò l’impellente quanto illogica ostinazione di prendere il traghetto delle 15.
Erano via da mesi, c’era una casa da chiudere e i bagagli da fare, ma lei doveva prendere quella nave. Aprì il baule della macchina e gettò al suo interno i vestiti giacché, di fare la valigia, come di svuotare il frigorifero, non c’era tempo.
Mentre stava aiutando l’uomo a salire sull’auto, passò un pensionato (detto l’idraulico) che abitava in zona.
La donna gli diede le chiavi della casa dicendo: «La prego di chiudere, noi dobbiamo correre al porto» e, sgommando, partì in una nuvola di polvere lasciando il tizio perplesso con il mazzo sul palmo della mano.
La coppia riuscì per un soffio a salire sul traghetto delle 15 che, chiuso il portellone, subito salpò. Mezz’ora più tardi, a metà della tratta che collega l’isola alla terraferma, l’uomo puntò con profondissima intensità il suo sguardo azzurro in quello della moglie e, con quel saluto, si congedò da lei. E dal mondo.
Nel frattempo l’idraulico, chiuse tutte le finestre e ritirati i mobili da giardino, si era allontanato a piedi. Un centinaio di passi e sentì un pianoforte suonare. Si fermò. In quella pineta c’erano tre case, ma solo una con il piano.
Tornò indietro di corsa nel timore di aver chiuso dentro qualcuno e, più si avvicinava, più l’intensità della musica cresceva. Con mani tremanti aprì la porta: il pianoforte cantava ma, in casa, lui non vedeva nessuno.
Quando gli giunse notizia che, proprio in quel momento, l’uomo era partito per il Grande Viaggio, sconvolto e timoroso di venire deriso, decise di tenere quel mistero per sé. Passarono due anni. Un figlio dell’uomo si trasferì a vivere sull’isola e l’idraulico, conosciutolo, prese coraggio e parlò.
Già comprendere che non siamo questo corpo, ma siamo liberi, è grandioso. Sapere poi che, non appena affrancato dalla prigionia dell’abito terrestre, l’uomo era ‘corso’ a farsi una suonata, ancora mi emoziona.
Perché quell’uomo, era mio padre.
#6novembre2021
#GiornaleDiBrescia
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