LA PAURA DELLA VERITA' ALIAS IL MAL DI VIVERE
È perché ne vedo troppe di malattie che le parole di Alejandro Jodorowsky mi costringono a osservare la realtà dalla prospettiva di chi ha sperimentato come, inconsciamente, i primi a non voler guarire siamo noi.
«L’atto terapeutico è una strana battaglia: si lotta strenuamente per aiutare qualcuno che innalza tutte le barriere possibili per provocare il fallimento della guarigione - scrive Jodorowsky - In un certo senso, per chi è malato, il guaritore è una speranza di salvezza e contemporaneamente un nemico».
La mia perplessità nel leggere queste parole viene chiarita dal prosieguo del testo.
«Chi soffre teme che gli venga rivelata la fonte del suo male di vivere per cui vuole un sedativo, qualcuno che lo renda insensibile al dolore, ma non desidera assolutamente cambiare, non vuole che gli si dimostri che i suoi problemi sono la protesta di un’anima rinchiusa nella prigione di un’identità fasulla».
La fonte del nostro mal di vivere, secondo Jodorowsky, è il nostro cervello primitivo che ci porta, come gli animali, a difendere il nostro territorio (casa, familiari, attività e, soprattutto, il nostro corpo che la mente identifica con la vita stessa).
Eppure chi comanda «è un individuo con limitazioni che corrispondono al proprio livello di coscienza.
Più il livello di coscienza è elevato, più grande è la libertà» di espandere il territorio personale «all’universo intero e alla totalità degli esseri viventi», cosa non possibile se non decidiamo di lavorare sulla ferita originaria dei «condizionamenti fetali, famigliari e sociali».
Alejandro spiega che, per «realizzare la mutazione nella quale il sofferente riesce a vivere con gratitudine il miracolo di essere vivo», è indispensabile diventare consapevoli dei propri meccanismi di difesa, gli stessi che gli animali usano nei confronti dei predatori: fingono di essere morti, «si ricoprono di squame chitinose, si nascondono nel fango, trattengono il respiro e perfino i battiti del cuore.
L’essere umano fa lo stesso: si blocca, finisce in un circolo vizioso di gesti ripetitivi, desideri, emozioni, pensieri, e vegeta in questi limiti ristretti rifiutando ogni informazione nuova, immerso nell’incessante ripetizione del passato».
Secondo il regista, attore e scrittore, in definitiva, fuggiamo costantemente dalle nostre profondità cercando nelle sensazioni superficiali un’anestesia e non accorgendoci che «ogni malattia è una mancanza di consapevolezza impregnata di paura».
Come potremmo saperlo, dice Jodorowsky, se fin da bambini, a causa dei divieti che ci vengono imposti senza spiegazioni, ci alleniamo ad accettare l’incomprensibile e a non essere ciò che siamo pur di evitare punizioni e, soprattuto, pur di sfuggire il castigo più grande, quello di non essere amati (curati, nutriti) che metterebbe a repentaglio la nostra sopravvivenza?
Sono parole forti e non facili, quelle di A.J., e io mi chiedo: mentre i granelli di sabbia scorrono veloci lungo la clessidra della vita, vogliamo provare a espandere i nostri limiti per scoprire chi siamo veramente, o continuare a vivere anestetizzati aspettando che sia troppo tardi?
Sant’Agostino dice “Supera te stesso e supererai il mondo”.
Noi, cosa diciamo?
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Ecco il brano originale di Jodorowsky
Chi viene a consultarmi chiede aiuto ma nello stesso tempo lo rifiuta.
L’atto terapeutico è una strana battaglia: si lotta strenuamente per aiutare qualcuno che innalza tutte le barriere possibili per provocare il fallimento della guarigione.
In un certo senso, per chi è malato il guaritore è una speranza di salvezza e contemporaneamente un nemico.
Chi soffre teme che gli venga rivelata la fonte del suo male di vivere, per cui vuole un sedativo, vuole che qualcuno lo renda insensibile al dolore, ma non desidera assolutamente cambiare, non vuole che gli si dimostri che i suoi problemi sono la protesta di un’anima rinchiusa nella prigione di un’identità fasulla.
Il cervello umano reagisce come un animale, difende il proprio territorio identificandolo con la propria vita.
Fanno parte di questo spazio, delimitato con l’orina e gli escrementi, i genitori, i fratelli, i partner, i collaboratori e, soprattutto, il corpo.
Ma chi è il padrone? È un individuo con limitazioni che corrispondono al proprio livello di coscienza. Più il livello di coscienza è elevato, più grande è la libertà.
Per raggiungere tale grado di libertà, nel quale il territorio non si limita più a una manciata di metri quadrati o a un piccolo gruppo di soci, ma è l’intero pianeta e la totalità degli uomini, o meglio ancora, l’universo intero e la totalità degli esseri viventi, innanzitutto occorre cicatrizzare la ferita originaria, liberarsi dai condizionamenti fetali, poi da quelli famigliari e infine da quelli sociali.
Per realizzare la mutazione nella quale il sofferente, avendo lasciato perdere ogni pretesa, riesce a vivere con gratitudine il miracolo di essere vivo, occorre essere consapevoli dei propri meccanismi di difesa. E sono i meccanismi che tutti gli animali impiegano per sfuggire ai nemici predatori.
Sanno incistarsi e anche fingere di essere morti, si arrotolano su se stessi, si ricoprono di squame chitinose, si nascondono nel fango, trattengono il respiro e perfino i battiti del cuore.
L’essere umano fa lo stesso: si blocca, finisce in un circolo vizioso di gesti ripetitivi, desideri, emozioni, pensieri, e vegeta in questi limiti ristretti rifiutando ogni informazione nuova, immerso nell’incessante ripetizione del passato.
Per fuggire dalle profondità, si lascia vivere galleggiando sopra un tessuto di sensazioni superficiali, come anestetizzato.
Fondamentalmente, ogni malattia è una mancanza di consapevolezza impregnata di paura.
Tale incoscienza nasce da un divieto imposto senza fornire spiegazioni, che la vittima deve accettare anche se è incomprensibile. Si pretende che il bambino non sia quello che è, se disobbedisce viene castigato.
E il castigo più grande è non essere amato..
Alejandro Jodorowsky
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